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sabato, Maggio 18, 2024

CARMINA CAMPUS – SAVE WASTE FROM WASTE

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Redazione EconomiaCircolare.com
[di Cecilia Frajoli Gualdi e Fabio Pulsinelli]
Save waste from waste. Applicando i teoremi dell’economia circolare all’industria della moda Ilaria Venturini Fendi nel 2006 ha creato Carmina Campus, primo progetto italiano di moda sostenibile


Sinossi

Ilaria Venturini Fendi, antesignana della moda sostenibile, ha fondato nel 2006 con Carmina Campus il primo progetto di moda ambientalmente e socialmente responsabile made in Italy, applicando i teoremi dell’economia circolare all’industria della moda. Collaborando con i migliori artigiani italiani e rispondendo al mantra “Save waste from waste”, Carmina Campus riutilizza ogni tipo di “rifiuto” per realizzare borse, accessori e complementi d’arredo. Dai copertoni ai residui di campionari di pelle e pellicce dell’industria della moda, fino alle lattine e alle cannucce. Ilaria, nel suo approccio circolare offre una seconda e terza vita ad oggetti altrimenti destinati alle macerie. Una seconda vita perchè dall’assemblaggio dei vari prodotti crea borse ed accessori. I rifiuti di alcuni diventano con Carmina Campus un tesoro per altri. Una terza vita perché, inoltre,questi oggetti diventano spesso veicolo di messaggi.

Ilaria Venturini Fendi, antesignana della moda sostenibile, ha fondato nel 2006 con Carmina Campus il primo progetto di moda ambientalmente e socialmente responsabile made in Italy, applicando i teoremi dell’economia circolare all’industria della moda.

Può sembrare strano associare le tematiche dell’economia circolare al mondo del fashion, ma, purtroppo, la moda è la seconda industria più inquinante al mondo e si fanno sempre più pressanti le esigenze di cambiamento.

I dati sono allarmanti, è stato previsto che le emissioni di CO2 prodotte dalla moda aumenteranno del 60% nei prossimi 12 anni, ed è necessario che il consumatore capisca che i cambiamenti climatici sono collegati anche a questa industria.

L’approccio circolare è molto importante per me, infatti sin dal 2006 quando ho creato Carmina Campus ed ancora non si parlava molto di circolarità nell’economia, mi è venuto spontaneo impostare il mio marchio sulla seconda vita dei materiali, che cercavo di rigenerare parallelamente alla mia stessa visione della moda, ai miei occhi diventata ormai obsoleta.

Carmina Campus è nato quando ancora nessuno parlava di tonnellate di plastica che si riversano nei nostri mari ogni anno o dei problemi di smaltimento dell’invenduto nell’industria moda. Anzi è nato proprio negli anni del boom della Fast Fashion, quando i grandi brand di moda hanno iniziato a proporre al consumatore ben 52 collezioni l’anno rispetto alle classiche due, il tutto con degli altissimi costi per l’ambiente ed il lavoratori.

Mentre l’industria moda decollava verso una produzione rapidissima ed iper consumistica, Ilaria si è ritirata dalle scene dell’alta moda romana e si è dedicata all’agricoltura biologica. 

Carmina Campus è la sintesi delle due anime professionali di Ilaria. Designer di accessori per Fendissime ed imprenditrice di agricoltura biologica con I Casali del Pino. L’esperienza acquisita nel mondo dell’alta moda si è fusa con le competenze ambientali e la passione per la sostenibilità sviluppate nel campo dell’agricoltura biologica.

Carmina Campus non è stato il frutto di un’operazione di pianificata. Quando avevo lasciato il mio lavoro da Fendi come designer e Direttore Creativo Accessori Fendissime, lo avevo fatto perché realmente sentivo il bisogno di staccami dai ritmi sempre più accelerati della moda e dalla frustrazione di vedere una cosa creata con tanta passione e lavoro diventare subito vecchia appena presentata.

Una volta lasciata la maison Fendi mi sono occupata della conversione al biologico, dello studio per il restauro conservativo degli edifici presenti in azienda e per un certo tempo ho pensato solo a questo.

Ho sempre pensato, però, che il lavoro creativo fosse il più bello del mondo e ne sentivo la mancanza nei lunghi inverni in cui la campagna riposa e la terra si rigenera. Tanto che continuavo a farmi fare delle borse dagli artigiani che conoscevo, per mio uso personale.

E così si è verificato l’episodio che ha portato alla nascita di Carmina Campus.

Ho, infatti, personalizzato con materiali trovati in casa alcune conference bags per una ONG impegnata in campagne sui diritti delle donne ed ho creato tanti pezzi unici che ho proposto ad alcune boutique. È stato subito un successo e questo mi ha fatto pensare che avrei potuto creare un mio marchio producendo borse con un approccio diverso, unendo il mio passato know-how al riuso di materiali di scarto inutilizzati.

Agricoltura e moda sono diventati i miei due lavori, diversi ed apparentemente molto lontani, anche se in realtà i parametri di riferimento dell’uno e dell’altro coincidono: rispetto per l’ambiente, natura e progetti sociali. 

Collaborando con i migliori artigiani italiani e rispondendo al mantra “Save waste from waste”, Carmina Campus riutilizza ogni tipo di “rifiuto” per realizzare borse, accessori e complementi d’arredo. Dai copertoni ai residui di campionari di pelle e pellicce dell’industria della moda, fino alle lattine e alle cannucce. I particolari materiali scelti ed il modo in cui prendono nuova vita sono la caratteristica che rende unici i capi di Carmina Campus.

All’inizio ho cominciato con il vintage, ma poi ho capito che nei laboratori, nelle industrie, anche in quelle che non hanno niente a che fare con la moda, nei magazzini delle fabbriche ci sono enormi quantitativi di materiali di scarto non utilizzati. Compro a peso le cartelle colori e le pelli intere dai campionari dei produttori di pelletteria, cascami di pelle e pelliccia dai produttori di abbigliamento, difettati da aziende che fanno ad esempio tessuti impermeabili, che magari non hanno il necessario grado di impermeabilizzazione per i loro scopi, o le giacenze di produzione. Acquisto persino scarti di lavorazione e residui industriali, perché sono proprio i materiali che le industrie devono mandare in discarica quelli che mi stimolano di più nella ricerca di un nuovo utilizzo.

Per il progetto in Africa, invece, si poteva fare più upcycling che riuso. Infatti lì, le condizioni di vita sono tali che diventa difficile trovare materiali da riusare. Nel progetto però si utilizzavano solo materiali reperiti localmente come le tende da safari che ho potuto abbinare a ritagli di tessuti africani e pullover usati per le uniformi scolastiche. Ho spesso utilizzato anche la cosiddetta “mitumba”, cioè l’abbigliamento usato che arriva in Africa dai paesi occidentali.

Poi lavoro tutto in Italia con alcuni artigiani con cui collaboro, il più vicino possibile alla mia sede a Roma. Le sole borse che ho prodotto fuori dall’Italia sono state quelle realizzate per l’agenzia delle Nazioni Unite.

Ilaria, nel suo approccio circolare offre una seconda e terza vita ad oggetti altrimenti destinati alle macerie. 

Una seconda vita perchè dall’assemblaggio dei vari prodotti crea borse ed accessori. I rifiuti di alcuni diventano con Carmina Campus un tesoro per altri.

Una terza vita perché, inoltre, questi oggetti diventano spesso veicolo di messaggi.

L’inquinamento della nostra epoca è anche mediatico e ci spinge ad esprimerci attraverso immagini e messaggi che devono essere sempre più concisi e focalizzati per non perdersi nell’enorme flusso di informazioni da cui siamo travolti. Per questo ho sempre amato la stampa di claim all’interno o all’esterno di borse e oggetti, sui packaging, nelle nostre installazioni espositive, su comunicati e materiali di informazione. È un modo diretto di comunicare e sintetizzare un concetto. Con la frase “save waste from waste”, ad esempio, volevo trasmettere l’idea che si può salvare il rifiuto dall’essere “rifiutato” e che, anzi, non farlo è uno spreco. Waste infatti in inglese è una parola che significa sia spreco che spazzatura.

La realizzazione dei prodotti Carmina Campus dona, poi, molto spesso una seconda vita anche a chi li realizza.

Ilaria Venturini Fendi, infatti, ha collaborato a lungo con l’International Trade Centre sviluppando un progetto dedicato alle donne più svantaggiate in Africa. Seguendo la filosofia “just work, not charity” ha fatto lavorare intere comunità africane. Come ha fatto, più recentemente, collaborando con il Ministero della Giustizia e Socially made in Italy, un gruppo di cooperative sociali che opera all’intero delle prigioni italiane con programmi di riabilitazione al lavoro, dando lavoro a 60 donne.

Rispetto a prima il mio approccio creativo si è completamente ribaltato, oggi sono i materiali recuperati a suggerire l’idea di design e non il contrario.

Il mio tuttavia è un piccolo brand e non offre certo la soluzione per risolvere tutti i problemi creati dal sistema moda.

Credo che l’unica strada sia diventare molto più proattivi, che significa innovare realmente, senza limitarsi ad abbinare progetti sostenibili a quello che già si fa, ma piuttosto cambiando radicalmente il modo in cui lo si fa. 

Per fare un salto di qualità è necessario concepire diversamente l’impresa, che essendo il punto di raccordo tra tecnologia, produzione e consumo, deve ripensare i metodi di produzione, il sistema di distribuzione e le scelte di marketing. Tutto questo anche con il supporto creativo dei designer che per loro natura spesso precedono lo spirito dei tempi e possono suggerire nuove impostazioni attraverso le quali il prodotto che creano sia tracciabile dall’origine allo smaltimento. 

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